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mercoledì, 17 Luglio, 2024

Il Rendiconto di Alan Patarga – DAL TETTO AL CONTANTE AL SUPERBONUS, L’ITALIA DELLE REGOLE A FISARMONICA CHE PERDE SOLDI E OCCASIONI

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di Alan Patarga

Il Consiglio dei ministri ha appena approvato le nuove regole sul Superbonus al 110%, il nodo è la possibilità di cessione del credito fiscale: in termini pratici, la possibilità di far eseguire i lavori senza anticiparne il costo in attesa del rimborso dallo Stato. La stretta di appena un mese fa (una cessione e stop!) si riallarga un po’ (massimo tre cessioni) e il conto dei pignoli dice che siamo alla decima (10!) modifica in meno di due anni, da quando cioè è stata introdotta l’agevolazione pensata per favorire il rilancio del settore edilizio e al tempo stesso migliorare l’efficienza energetica del patrimonio immobiliare italiano, tra le cause di un eccesso dei consumi e dell’inquinamento.
Non si tratta dell’unica regola finita nella roulette russa normativa italiana nelle ultime ore. Con un voto a sorpresa in Commissione alla Camera, mercoledì sera i partiti di centrodestra hanno mandato sotto il governo sul limite di utilizzo del denaro contante. La legge di bilancio entrata in vigore lo scorso 1° gennaio aveva appena abbassato tale soglia a 1.000 euro, una delle più basse al mondo, con l’obiettivo dichiarato di ridurre i margini per evadere il fisco. Lega e Forza Italia, contravvenendo alle indicazioni dell’esecutivo, hanno infatti votato a favore di un emendamento al Decreto Milleproroghe presentato da Fratelli d’Italia che stabilisce il differimento del nuovo limite al 1° gennaio 2023 e quindi il ripristino del massimale di 2.000 euro per le transazioni in contanti. Si tratta, spiegava ieri un articolo del Sole 24 Ore, del settimo (7!) cambio di disciplina in dieci anni.
La stessa esistenza di un decreto riservato alle proroghe, un omnibus sovraffollato di virtuali “pagherò” della politica italiana spiega l’eccentricità del nostro Paese in termini di rispetto delle regole. Un altro caso che ha scosso il governo Draghi, sempre sul Milleproroghe, è quello dell’ex Ilva di Taranto: 575 milioni di euro, originariamente destinati alle bonifiche dei terreni e che si era deciso di dirottare sul processo di decarbonizzazione dell’acciaieria (con forni elettrici e utilizzo dell’idrogeno) sono tornati invece al punto di partenza per l’impuntatura del Pd, che a sua volta ha votato difformemente dal parere dell’esecutivo. Al di là dell’opinione che governo, partiti e ciascuno di noi possa avere su ognuno di questi temi, il dato che emerge con forza da questa infinita serie di ordini e contrordini (e talvolta disordini) è che in Italia a mancare non siano le norme, che anzi si affastellano rapidamente contraddicendosi, ma un quadro stabile di regole che dia certezze ai contribuenti e agli investitori, italiani e stranieri.
Il fatto stesso che i destini della Patria (si sarebbe detto un tempo) sembrino indissolubilmente legati a un pur lodevole piano europeo di aiuti a fondo perduto e prestiti a basso costo – il fondo Next Generation Eu che trova poi riscontro attuativo nel nostro Pnrr, Piano nazionale di ripresa e resilienza – dà l’idea di un Paese che per crescere e svoltare deve di fatto sperare nella leva degli investimenti pubblici, perché ad aspettare quelli privati si rischia di diventare vecchi. Investimenti pubblici guidati, peraltro, da uno spaventoso non detto: e cioè che l’Italia malato d’Europa sia “too big to fail”, troppo grande per fallire senza travolgere finanziariamente il resto dell’Unione, e che insomma quei soldi non è che ce li siamo meritati, li abbiamo “estorti” con la nostra passata inaffidabilità. Quella stessa inaffidabilità che ora cerchiamo di abbandonare sul piano della disciplina di bilancio (e la presenza di Draghi è in questo senso la migliore garanzia che potessimo offrire), ma che non sembriamo in grado di lasciarci alle spalle per tutto il resto.

E ANCHE LE SPIAGGE SARANNO UN BLUFF

In autunno, l’ultimo rapporto sull’attrattività del Paese stilato da The European House – Ambrosetti ha messo in evidenza come l’Italia sia precipitata (certo, anche a causa della pandemia) di ben otto posizioni nella classifica dei 148 Paesi dove vale la pena mettere i propri soldi. Nell’indice Ide (sigla che sta per investimenti diretti dall’estero) siamo al 20° posto, anche perché l’Europa nell’ultimo decennio è risultata nel suo complesso meno “affascinante” di un tempo, ma in larga parte per demeriti nostri. E in questo l’assenza di un quadro regolatorio stabile e di una giustizia celere che sopperisca alle probabili liti che l’incertezza normativa può ingenerare sono, di fatto, il bacio della morte per chi prendesse in considerazione di avventurarsi sul mercato italiano.
La stessa vicenda delle concessioni balneari, che da anni l’Europa ci chiede di mettere a gara per ottemperare alla discussa Direttiva Bolkestein, è cartina di tornasole della perenne incapacità del Paese di prendere una decisione. Anziché opporsi- platealmente, costruendo magari un consenso su tale posizione (qualora lo si ritenga opportuno), si è preferito rimandare – anno dopo anno – fino alla messa in mora da Bruxelles. E anche la scelta perentoria del governo Draghi, e cioè che dal 2024 si cambia musica e gli arenili saranno messi all’asta, è presumibilmente destinata a rivelarsi un fuoco di paglia: nel mezzo ci sono le elezioni politiche del 2023, e il milione di posti di lavoro generati dalle 30.000 imprese balneari italiane sono altrettanti voti.
Qualche mese fa, un informatissimo studio degli economisti de lavoce.info metteva in luce come la perdita di investimenti sia costata all’Italia, in un decennio, circa 8 punti percentuali di Pil, vale a dire a spanne poco meno di 150 miliardi di euro. Sono, grossomodo, i soldi che riceveremo dall’Europa in sei anni di Pnrr e che in larga parte dovremo comunque restituire. Ma sono, soprattutto, l’ammissione di un fallimento che lascia sul terreno ferite importanti: il nanismo delle imprese italiane, troppo legate al cappio bancario per poter crescere, e la rinuncia (per mancanza di
risorse) a investire sulla ricerca e l’innovazione, che finirà per spingere sempre più comparti fuori mercato, quando si tratterà di vedere chi vive e chi no nell’arena senza cuore della competizione globale.

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