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sabato, 20 Aprile, 2024

RENZI, I PERSONALISMI ED UNA (POSSIBILE) SVOLTA MILANESE

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di Roberto Donghi

Antiberlusconisti, antirenziani, antisalvinisti: che l’Italia fosse il paese nel quale la politica la fa l’individuo e non i suoi valori lo sappiamo dalla fine della Repubblica Romana (quella di Cesare, non di Mazzini) ed anche che Firenze non generi più grandi uomini politici dal 1449, anno di nascita del Magnifico, lo sappiamo da secoli. Eppure avevamo sperato per qualche giorno e per qualche ragione che il nuovo partito di Renzi fosse un po’ meno “Renzi” e un po’ più nuovo. Un qualcosa di più maturo, meno personalistico, magari con un Renzi in versione più defilata vista la sua bruciatura di fronte all’opinione pubblica.
Certo, il suo muoversi dietro le quinte durante la crisi di governo aveva fatto sperare in un partito in cui il frontman sarebbe stato un altro, ma appunto ci eravamo solo illusi sul freno che Renzi avrebbe messo al suo stesso ego. Risultato? Sempre le stesse cose: si combatte il personalismo salvinista con il personalismo renziano. Così come per 25 anni la sinistra ha provato a combattere (senza personalità adatte) il personalismo berlusconiano. Si torna all’ “io ho fatto e tu no” per evitare qualsiasi apertura sui temi.
Certo a “Porta a porta” l’ex Premier un’apertura l’ha fatta: si è rivolto agli elettori del Nord, nello specifico agli “Artigiani del Nord”, entrando di fatto in un’area di interesse lasciata sguarnita da una Lega che ha rimosso il “Nord” per divenire, più che nazionale, una Lega di centro-sud.
Ed è proprio a Nord che si guarda, perché in una regione moderna e “benestante” quale la Lombardia, nessuno pare essere deciso a fare il passaggio. In Consiglio Regionale la componente dem rimane momentaneamente ferma sulle sue posizioni. Nessuno parla di scissioni, nessuno prospetta un passaggio nella formazione renziana.
Stessa cosa nel Consiglio Comunale di Milano, città il cui sindaco Beppe Sala ha persino rivolto un pesante post a Renzi conclusosi con un “Lo dico con rispetto per Matteo, ma credo che faccia molta fatica a stare in una comunità collaborativa, preferendo invece un sistema che risponda pienamente a lui.” Parole che aprono una crepa profonda tra i due,
Anche spostandoci poco più sotto, in Toscana, in particolare a Firenze, in particolare su “l’Erede” Dario Nardella, nulla si muove. Il vice-Renzi resta fermo nel PD.
Un buco nell’acqua quindi? E’ possibile e meglio sarebbe stato per Matteo comandare dalle retrovie, proponendo un vice-leader piacente ma malleabile ed in grado di rendere l’idea di un partito veramente nuovo e quindi capace di intercettare i voti del centrodestra liberale e riformista (ammazzando FI) del centro e del centrosinistra a lui vicino.
Nel frattempo di sicuro sappiamo che la sua uscita dal PD ha lasciato scoperta quella componente progressista attualmente in minoranza che non vuole traghettare altrove. Diciamo la verità: la parentesi Zingarettiana è un breve revival vintage anni’90 e durerà poco o niente. E’ solo questione di tempo prima che gli “ex” renziani tornino al comando ed a quel punto, senza un fiorentino a guidarli, magari potranno volgere lo sguardo più a Nord, cercando un nuovo capo all’ombra della Madonnina.

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