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giovedì, 28 Novembre, 2024

Il Rendiconto di Alan Patarga – È IL MERCATO A DIRE CHE NON SIAMO PRONTI AI DIKTAT DELL’UE

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Negli ultimi giorni sui social è diventato virale un post che recita grosso modo così: “Quando è nata l’auto non sono serviti incentivi o divieti per abbandonare la carrozza. Se l’auto elettrica è ‘meglio’, non serve altro. Se serve altro, è perché non lo è”. Una riflessione incontrovertibile, perché al netto delle preoccupazioni che tutti abbiamo per il destino dei nostri portafogli – che l’Unione europea pare voler mettere a dura prova nel giro di pochi anni – c’è un dato oggettivo che rischia di perdersi: non è che non siamo pronti perché siamo arretrati, non siamo pronti perché le tecnologie attuali non hanno raggiunto quel grado di maturazione da renderle appetibili dal mercato. In una parola: bella la casa green e bella pure l’auto elettrica, a patto però che costino il giusto, che offrano performance all’altezza con quel che andrebbero a sostituire e che siano una scelta libera.

Il dirigismo di Bruxelles non pare volere tener conto di nessuna di queste condizioni: il costo di una transizione ecologica che l’Europa non aspira a governare ma che si assume il rischio politico e finanziario di voler indurre potrebbe davvero essere troppo elevato. E non soltanto per le famiglie chiamate ad affrontare un decennio di grandi spese: la sostituzione dell’auto e la ristrutturazione dell’abitazione, sostanzialmente per “regio” decreto.

LA LOTTA AL DIESEL

Lo stop alla vendita delle automobili a motore “endotermico”, quindi a benzina e gasolio, a partire dal 2035 mette in serio pericolo non soltanto le finanze familiari di molti, ma anche la tenuta dell’industria automobilistica. Chiamata a investire tutto su un prodotto che di per sé non tirerebbe più di tanto, a costruire una nuova filiera e quindi a smontare parzialmente l’indotto (con quel che ne consegue in termini di occupazione), a ridisegnare il proprio perimetro di mercato. Operazioni che richiederebbero decenni, per essere indolori o quasi, devono essere invece ultimate nel giro di pochi anni, con inevitabili vittime. La convinzione che gli incentivi, a suon di soldi pubblici nazionali o comunitari, possano risolvere la situazione è illusoria: lo dimostrano le rottamazioni e gli ecobonus che stanno sì contribuendo a invertire la rotta nelle preferenze di acquisto degli italiani in fatto di due e quattro ruote, ma non in maniera significativa. I tempi, insomma, non sono maturi.

E LA VORAGINE DELLA “CASA GREEN”

Lo stesso si potrebbe dire per il patrimonio immobiliare. Anche se le motivazioni del flop sono altre. Al netto di case particolari, che rischierebbero di essere “stravolte” da interventi troppo radicali, quasi tutti in Italia vorrebbero rimettere mano alla propria abitazione per migliorarne la classe energetica e quindi efficientarla. Siamo però sempre allo stesso punto: l’equilibrio tra costi e benefici. I dati della Cgia di Mestre sulla spesa del Superbonus al 110% (71,7 miliardi di euro per riqualificare il 3,1% degli edifici del Paese) danno l’idea di un pozzo senza fondo che né le risorse private né le casse dello Stato potranno mai colmare: e infatti il governo Meloni, scontentando non poco i costruttori che denunciano il pericolo di chiusura per 25 mila imprese del settore, ha deciso di chiudere il rubinetto delle cessioni dei crediti fiscali e riconoscere che la pacchia è finita. Chi ha i soldi affronterà la spesa e attenderà il rimborso del Fisco, chi non li ha non può pretendere di rifarsi casa sperando che a pagare sia da subito Pantalone. La verità è che nel frattempo si sono creati gli “esodati” del Superbonus, ditte e famiglie sospesi sia dal punto di vista finanziario che da quello edilizio, stritolati dalle indecisioni della politica e dai continui cambi di regole. Un paradosso che ora l’Ue rischia di amplificare ulteriormente, senza più nemmeno la prospettiva di un insostenibile sostegno pubblico sopravvissuto poco e male alla pretesa grillina di rendere gratuito quel che gratuito non può essere.

di Alan Patarga

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