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La zōé greca ed il diritto alla morte

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«Mi fa male la disinvoltura con cui si inneggia al suicidio assistito come a una conquista, come a un progresso. Io penso che il vero progresso sia una società nella quale si condividono gioie e fatiche. Progresso è un’assistenza di qualità, un’adeguata alleanza terapeutica». Queste le parole del vescovo di Trieste, Enrico Trevisi, in commento alla vicenda della prima donna italiana a cui il SSN ha somministrato il farmaco per l’eutanasia. Inutile dire che l’evento ha suscitato grande scalpore in tutto il territorio nazionale, riaccendendo una discussione che sembrava sopita ormai dai tempo: abbiamo il diritto di scegliere quando morire? La risposta italiana, a differenza di quella di altri Paesi, sembra univoca: no.

Ancora una volta, per comprendere approfonditamente questa discussione, l’elemento religioso è molto più che utile. La morale religiosa, ed in particolare quella cristiana, ha indubbiamente influenzato la posizione di quei paesi che, ancora non completamente laicizzati, restano attaccati a vecchie posizioni inerenti alla vita e, spesso, smentite dalla scienza.
Questa visione della Βιος contrapposta a Θανατος è infatti tipica delle religioni monoteiste, che leggono la vita come contrapposta alla morte.
Una visione alternativa, però, esiste e ci è tramandata dalle antiche tradizioni classiche in cui il binomio vita/morte non costituiva un’equazione in cui i due termini erano necessariamente capaci di annullarsi, ma in cui anzi questi potevano coesistere e si potevano intersecare a formare una visione dell’esistenza completamente diversa da quella odierna: la ζωή.

La zōé (transl.), o vita assoluta, è quell’idea greca di vita che non era contraddetta dalla morte, vicino alla quale, in poche parole, non vi era spazio per la non-vita. La zōé non ha contorni, ma ha il suo opposto in thánatos, la morte. In sintesi, quindi, la zōé, non ammette l’esperienza della sua distruzione, ma viene invece sperimentata senza una fine specifica, come vita infinita per l’appunto.
Plotino, per esempio, definì la zōé come “tempo dell’anima” riferendosi al ciclo delle incarnazioni dell’anima umana in diversi tipi di bios, o vita finita, proprio perché la lingua e la cultura greca avevano già al loro interno questa distinzione fondamentale, andata però persa con l’avvento dei grandi monoteismi nel bacino mediterraneo.
La nostra visione della vita, tutt’altro vicina a quella greca della zōé, è dunque più vicina al concetto di Bios, ossia di quella vita contraddetta dalla morte, in cui l’ontologia di un individuo è annichilita dalla non-esistenza.

Eppure, se ci sforzassimo di superare il millenario taboo della morte come annullamento di noi stessi ed iniziassimo invece a guardare la cosa sotto il punto di vista del diritto all’autodeterminazione degli individui anche in materia di morte, allora il diritto a porre fine alla propria vita ci suonerebbe senz’altro meno tetro, a prescindere dalla nostra posizione favorevole o meno a questa possibilità.

La domanda “abbiamo diritto a scegliere quando morire?” merita dunque una risposta ben più complessa ed articolata del lapidario e disgustato “No” sopraggiunto quest’oggi da molte voci.

di Stefano Sannino