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giovedì, 28 Novembre, 2024

#conosciiltuosguardo. Chi è il mio prossimo?

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di Angelo Portale

Il più prossimo a noi siamo noi stessi ed in effetti se non sappiamo amare noi stessi non siamo molto capaci di amare gli altri in modo sano. Oggi, però, questo tanto decantato sano amore per sé stessi rischia di essere assolutizzato in nome di un individualismo che poco ha a che fare con il Vangelo. Avrà senz’altro migliore corrispondenza con altre filosofie, approcci religiosi, forme new age, ma di cristiano ha ben poco.
Ora, noi possiamo essere d’accordo o meno con il messaggio evangelico ma, è opportuno essere chiari.
Cos’è l’amore sano per sé stessi? Cos’è l’amore sano per gli altri? Cos’è l’amore nel cristianesimo?
Iniziamo da questa terza domanda: cosa è l’amore, nel cristianesimo, lo ha mostrato Cristo con la sua vita.
L’amore, nel cristianesimo, non è una filosofia ma un fatto concreto, un dato di fatto, la vita di Gesù.
L’amore, nella sua forma più alta, nel cristianesimo, non è eros, né filìa, ma agape e, nell’agape è anche eros e filìa. Cioè: nella capacità di donarsi totalmente e senza riserve, anche a costo di rimetterci, quindi nell’amore agapico (cioè oblativo) in qualche modo possiamo trovarci l’amore erotico e quello nella formadell’amicizia e, questi due, hanno senso e vera realizzazione solo se vissuti nella dimensione della gratuità, del dono totale, del non possesso. Se ciò non avviene, rimangono dimensioni castrati e castranti. L’amore, nel cristianesimo, quindi, è desiderare di amare così e, con la grazia di Dio e il dono di sé, ogni volta più
radicale, farlo diventare una possibilità sempre più pienamente realizzata.
Torniamo alle altre due domande. È vero che, sia in una relazione affettiva di coppia, sia in una relazione di amicizia, è opportuno conoscersi, essere guariti da alcune ferite o per lo meno averne consapevolezza, essere capaci di bastarsi in modo da non trovarsi nel bisogno e legarsi all’altro in modo non sano e tanto altro. È vero che, se non sappiamo amare noi stessi (tema che comunque varia a seconda dell’antropologia che c’è dietro) difficilmente, lo ripetiamo, sappiamo amare gli altri in modo libero, senza aspettative e senza pretese ma, oggi c’è un grosso equivoco in tal senso. Infatti, amare sé stessi, non sempre ma sovente, viene confuso con il “fai solo quello che ti senti”. Facciamo un altro inciso necessario. È fondamentale, abbiamo detto,
conoscersi. Conoscersi significa anche sapersi ascoltare, saper sentire quello che vogliamo e quello che non vogliamo e, più nel concreto, saper sentire ciò di cui abbiamo voglia e ciò di cui non abbiamo voglia. Però, la domanda è questa: basta tale criterio per deliberare di muoverci all’azione quando si tratta di amare qualcuno, cioè di fare qualcosa di concreto per qualcuno? Secondo il cristianesimo no. Ma, a mio avviso, sarebbe anche una forma di morale molto individualista, soggettiva, poco altruista.
Possiamo certo dire che ognuno è libero di fare quello che vuole ma è questa la forma più alta della libertà?
Non è forse essere capaci di fare anche quello che non si vuole ma che in quel momento risulta essere giusto sulla base di un principio (assolutamente non semplicemente etico) squisitamente basato sulla misericordia?
Nel Vangelo di questa domenica, la famosa Parabola del buon Samaritano, Gesù, come unico criterio, ci dà il bisogno dell’altro, la necessità dell’altro, la misericordia, e va contro gli stessi principi dell’Antico Testamento, nello specifico del Libro del Levitico. Per capire meglio ecco di seguito una spiegazione.
«La parabola del buon samaritano narra di un malcapitato viaggiatore che, in un tratto di strada solitaria, incappa nei briganti, che lo spogliano, lo percuotono e poi se ne vanno, lasciandolo “mezzo morto”. Questa definizione del malcapitato va compresa bene nell’economia del racconto: «lasciandolo mezzo morto» (Lc 10,30). Queste parole spiegano, infatti, l’atteggiamento del sacerdote e del levita, che non è frutto di una semplice trascuratezza, come si potrebbe pensare. Tali parole alludono proprio a quella separazione dei due amori, a cui abbiamo già accennato. Il testo si esprime esattamente così: «lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto»; a questo punto, entrano in scena i due personaggi di contrasto: la figura di un sacerdote, al v. 31, e la figura di un levita, al v. 32, i quali lo vedono e passano oltre. La ragione per cui questi due personaggi passano oltre è da ricercarsi nella definizione del malcapitato, data dal narratore; egli viene lasciato dai suoi aggressori «mezzo morto». Si tratta dunque di uno stato di svenimento, così che la persona distesa sul ciglio della strada può sembrare un cadavere a chi lo guarda da lontano. Va qui ricordato che il libro del Levitico stabilisce, per i sacerdoti e per i leviti, una particolare proibizione: essi non devono toccare i cadaveri, per non contaminarsi (cfr. Lv 21,1). Al contatto con un cadavere, secondo il Levitico, si contrae una forma di impurità che impedisce l’accostamento alle cose sacre, cosa che invece i leviti e i sacerdoti dovevano fare occupandosi del Tempio e dei sacrifici, secondo l’ordinamento del sacerdozio di Aronne. Dicevamo che, appunto, la definizione di questo malcapitato allude indirettamente al Levitico e, al tempo stesso, chiarisce l’atteggiamento dei due, che non è semplicemente un passare oltre, come fosse una semplice noncuranza; c’è dietro qualcos’altro che Cristo vuole mettere in risalto: questi due personaggi, sapendo bene che il Levitico proibisce loro di toccare un cadavere, e temendo che quest’uomo incappato nei briganti fosse morto, e non semplicemente svenuto, passano oltre per non rischiare di contaminarsi. Il loro zelo di ubbidire alla legge mosaica, li porta a non verificare neppure la condizione reale di quell’uomo disteso sulla via. La paura di compiere una trasgressione, li blocca nel loro dovere morale di accertarsi della condizione di quell’uomo, che poteva essere ancora vivo. O peggio ancora: potrebbe darsi che essi trovino, proprio nella legge di Dio, una scusa plausibile per non farsi carico dei mali altrui (cfr. Mc 7,8-13)» (cfr. www.cristomaestro.it).
Gesù, va oltre la stessa legge ebraica! Il principio supremo è l’altro, non la legge, né tantomeno il nostro sentire. Il vangelo di questa domenica ci dice che non basta essere coerenti con il nostro sentire, è importante sentire il nostro sentire, ma se serve bisogna saper andare oltre, verso l’altro. Amare se stessi va bene ma se per amare me stesso lascio l’altro nel bisogno, questo non è cristiano! Delle volte bisogna andare contro il sentire, contro le nostre voglie, se vogliamo andare incontro all’altro. È quello che fa lo straniero, il samaritano, tra l’altro non ben visto dai giudei perché considerato eretico. Ed invece è proprio quello da cui non ti aspetti nulla, che è giudicato male, che viene fuori l’amore concreto e gratuito.
Questo Vangelo smonta ogni forma di appartenenza, ogni forma di legalismo, ogni forma di ipocrita giustificazione nel nome di qualsiasi principio: il fratello nel bisogno passa sempre davanti a tutto, anche delle stesse prescrizioni rituali per fare servizio nel tempio.
Amare l’altro come se stessi significa, quindi, amare gli altri come vorremmo essere amati noi: cioè in modo totale e gratuito. Ognuno di noi, nel profondo, desidera questo amore ed è questo amore che è chiamato a donare, se è necessario, anche quando sente altro ….

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