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giovedì, 3 Ottobre, 2024

David Begbie Emozione e purezza senza gravità

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David Begbie modella in trasparenza la realtà fisica, senza vestiti, oppure disadorna così come la presenta la sua qualità organica, di tutto quel quid che la natura ha ritenuto necessario per essere, essere naturale. Nell’arte, non è un corpo spogliato, questa è solo la sua fenomenica da cui hanno attinto, sia il concetto di bellezza, che è ritmo e proporzione, che quello di sensualità, che è tattilità e possesso.

Il concetto di vuoto e pieno è uno dei nodali della differenza, tra culture e concezioni del mondo, per cui una cosa essenziale, radicale, ineliminabile, diventa nella rappresentazione un luogo in cui si incontrano e si giocano, le simbolicità di cui tutti, uomini e cose sono fatti. Simbolicità che vanno da un massimo di apollineo e contemplativo ad un altrettanto massimo di dionisiaco fino alla purezza, con una molteplicità di escursioni che vanno in tutte le direzioni, anche se poi il vero problema non è quello di farne una narrazione universale, un’enciclopedia di tutti i passati, ma quello del presente, che per quanto ci riguarda è il concetto filtrato dalla grecità, dalla romanità, dall’umanesimo, dal rinascimento e poi dalle estroversioni della modernità. Nelle opere di Begbie la purezza simpatizza con la semplicità, ma entrambe tuttavia aprono porte diverse dell’universo concettuale, l’una conducente ad una singolarità alta nella forma esteriore e nell’organatura interna, come si addice all’acqua di fonte, il brillante, l’oro e tutte quelle cose che si coniugano con se stesse, senza perdere, anzi più sono solitarie, maggiore è il pregio. La semplicità è una disponibilità a coniugarsi, a rendersi disponibile per una diversità scalare verso il semplicissimo, a scendere e verso il complesso a salire. Eppure i due termini lavorano, linguisticamente ad un discorso analitico che serve alla filosofia e serve alla scienza, assumendo una connotazione indispensabile, per il lavoro mentale e per quello materiale, anche perché non esiste niente che sia totalmente mentale o totalmente tecnico. Il trionfo della natura non è nella sua verginità da selva, che corrisponde alla sua vocazione totalitaria, entro cui è possibile solo una vita primitiva, essenziale, ma nell’essere modificabile in vario modo, fino alla poesia del giardino dell’Eden, alla sua salvifica concezionalità e nel fornire la possibilità dell’artificio dal più semplice (fil di ferro) alla più complessa generazionalità delle nanotecnologie, fornendo la base di tutto ciò che serve alla trasformazione umana, intelligente della vita, per mezzo della tecnica. Le manipolazioni dell’artista costituiscono le pagine, i capitoli, i poemi fondamentali di tutto, perché attraverso di esse è stata possibile l’estensione della memoria, attraverso la scultura, punto di partenza per la trasmissione delle esperienze e la possibilità di trasformarle in sapere, trasformandole, adattandole, dal leggero, quasi insistente dell’equatore, al pesante e avvolgente dei poli, dove nonostante si ignorassero a vicenda, c’erano uomini, c’erano donne, separati nell’unica discendenza e riuniti solo ai nostri tempi. Manipolazioni di tutto, dei metalli, delle fibre, delle pietre, delle piante, secondo inclinazioni e bisogni, ma anche secondo sogni, immagini, desideri, paure.

Begbie costruisce unità nelle diversità e diversità unitarie, gli animali, i corpi, le cose, le ombre, facendo di necessità virtù e spesso trasformandole in eccellenze, in genialità, in ogni cosa che, poi, ha destato scambio, desiderio di possesso, ricchezza, materiale e spirituale. La contemplazione e l’emozione sono due palesi oppositività nella sua arte che si richiamano per una sorta di conspiratio, come la santità e la tentazione, perché fanno parte di nostri a priori, che superano le culture e le usanze, sono qualità ancestrali, che appartengono al carattere di ciascuno, come testimonia la leggerezza delle sue creazioni. La contemplazione, corrisponde alla versione spirituale dell’artista, semi-religiosa, che ci fa affermare che la verità non è mai nel realismo, nella storia, ma nello stile, nella forma capace di specchiarsi in se stessa e promuovere il rispecchiamento corale, s’accosta al superamento della differenza tra arte e vita e ci viene dalla lezione della statuaria greca, dalla sua iconologia matematica, geometrica, fatta apposta per ammutolire, per sospendere l’esteriorità, come in un rapimento mistico, reso avvolgente, atmosferico, astrale. Un’emozione lunga 42 anni, che corrisponde alle sollecitazioni sensoriali, alla presa di sopravvento, dei turbamenti momentanei, di quella che si può chiamare sensucht, con tutto in crisi, niente è stabile, ma in tutto c’è energia, con una nostalgia del non essere, del futuro, ma momentaneo non vuol dire superficiale, anche se il delirante è fuori contenitore, per sua essenzialità. L’emozione può accompagnare ai luoghi della nuova profondità, della memoria, della speranza, nella concretezza di ogni giorno, nei luoghi della propria vita, dove si abita, in continuazione. Contravvenendo anche allo spirito del tempo attuale che è di dismissione di ogni impegno, per trovarne tanti, nell’adeguazione del sentimento al volere. Che poi è questa la molla dello spirito veramente creativo di Begbie, dove gli altri non trovano, nel suscitare vita dove altri sentono la morte, la stagnazione, addirittura l’informe del disfacimento. L’erotismo nelle sue opere simpatizza col lusso, per il suo essere estremo, non facilmente compromettibile con l’altro da se. Come l’innamoramento di cui entrambi sono affini, non sentono se non le ragioni che sono le proprie, quelle del godere e del godersi insieme, con quel senso di sfida a tutto, prima di tutto al senso comune, a quello che fa da radice ad ogni alterità, perché quello che il senso comune orienta al buon senso, l’erotismo lo determina nel massimo di godimento tattile, il lusso nel massimo del godimento visivo, complice di tutto l’innamoramento che cancella nel sublime, ogni confine di bello e di brutto, anche ogni sconfinamento col perverso, col masochistico, prendendo tutto per mezzo e senza avere nessuna idea di fine, che non sia un’eterna continuazione, anzi un’ascesa del sempre di più, del sempre di più, che alla fine lascia solo lacrime. Per Begbie, per questo, la Cripta diventa un ipogeo sacro e 42 anni non bastano.

Prof. Pasquale Lettieri
Critico d’arte

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