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venerdì, 11 Ottobre, 2024

VIAGGIO METAFISICO DI IKKO NARAHARA ALLA RISCOPERTA DELLA TRADIZIONE GIAPPONESE

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di Alessandro Giugni

 «Una volta un maestro Zen fu interrogato da un discepolo su come fosse possibile raggiungere l’illuminazione e rispose: “Solo guardando il nulla!”. Il discepolo insistette: “Il nulla. Ma il nulla è una cosa che si può vedere?”. Il maestro di rimando: “Benché ci sia l’atto di vedere, l’oggetto non può essere figurato come qualcosa…”. Ed il discepolo ancora: “Se non può essere figurato come qualcosa, in che cosa consiste il vedere?”. Concluse allora il maestro: “Vedere dove non c’è qualcosa, questo è il vero vedere; questo è l’eterno vedere!”».

Con queste parole del filosofo Daisetsu Teitaro Suzuki potrebbe essere descritta una delle più influenti ed esoteriche opere fotografiche mai realizzate, Japanesque. In esse è, infatti, racchiusa l’essenza della ricerca intimista compiuta da Ikko Narahara.

Nato a Fukuoka nel 1931, aveva solo 12 anni quando, al termine della Seconda Guerra Mondiale, le truppe della Grande Alleanza, capitanate dall’esercito USA, occuparono il Giappone e misero in atto una politica revisionista della storia e della cultura giapponese, censurandole per come sviluppatesi fino a quel momento e imponendo nel Paese i canoni della cultura occidentale. In un simile contesto, Narahara non poté confrontarsi con la vera cultura giapponese, crescendo in una realtà stravolta dagli occupanti. Fu solo grazie a un viaggio in Europa, compiuto tra il 1962 e il 1965, e al confronto con il mondo occidentale che il Giappone sopito nel fotografo riemerse con tutta la sua forza. E fu così che nacquero le prime due opere di Ikko: Where time has stopped e España Gran Tarde. Dopo un soggiorno negli USA tra il 1970 e il 1974, Narahara maturò la decisione di fare ritorno nella sua terra natale al fine di riscoprire le proprie radici.

Japanesque si compone di cinque atti, cinque come i pilastri della cultura giapponese: lo Zen, uno stato della mente senza tempo né luogo e che dipende dall’intuizione individuale; le maschere del No, uno spettacolo teatrale la cui origine risale al XIV secolo; il Sumo, lo sport nazionale giapponese; la forgiatura della Katana e l’addestramento allo sguainare veloce di essa; da ultimo, lo Shiro, termine questo che nella lingua nipponica indica indistintamente il colore bianco e il concetto di “ben visibile”.

I suddetti atti sono accomunati dalla ricerca nel mondo presente di elementi che affondano le proprie origini nella cultura tradizionale del Giappone del passato. «Ho cercato di guardare come da uno spiraglio dentro un mondo di sogno vicino e, nello stesso tempo, lontano attraverso lo specchio del presente».

Un viaggio, quello in Japanesque, che si snoda lungo un serie di fotografie che, a tutti gli effetti, assumono le fattezze di un koan. Tale termine, nella sua originale accezione buddista Zen, fa riferimento a un’immagine da contemplare per cogliere il reale e il trascendente. Vi è così, in apertura dell’opera, la fotografia di un monaco buddista Zen che siede immobile al centro di un sentiero: l’abito scuro contrasta nettamente con la luminescenza della pietra che si irradia in ogni direzione e permette all’immagine di trascendere la sua dimensione bidimensionale. Vi è poi l’immagine di una parete di bambù sulla quale viene proiettato il contorno del volto di un monaco: la luce alle spalle dell’uomo dà vita a una luminosa aureola che sembra propagarsi da quella figura riflessa. O, ancora, dalle profondità di un’impenetrabile oscurità emerge una testa che, irradiata da una fortissima luce, viene privata di ogni dettaglio e finisce per svuotarsi della sua essenza materiale nell’oscura ombra proiettata sulla parete antistante.

L’opera di Narahara si conclude, nel capitolo dedicato allo Shiro, con la fotografia di un ventaglio attraversato dalla luce del sole e al di sopra del quale si pone un albero capovolto. Essa costituisce il punto di arrivo di quel percorso di ricerca, intrapreso anni addietro dal fotografo giapponese, della sua identità. Un viaggio che lo ha condotto a quel “vero vedere” di cui parlava il filosofo Suzuki nel suo scritto riportato in apertura dell’articolo.

 

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