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giovedì, 18 Luglio, 2024

CIKÀNI. Un viaggio nelle comunità gitane degli anni Sessanta attraverso gli scatti di Josef Koudelka

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di Alessandro Giugni
La carriera fotografica di Josef Koudelka non si esaurisce con il maestoso lavoro di documentazione degli eventi della Primavera di Praga (del quale abbiamo trattato nel precedente articolo di questa rubrica). L’anonimo praghese, infatti, fin dal 1962, dunque ben prima dell’occupazione della Cecoslovacchia operata dalle forze del Patto di Varsavia, si era interessato alla vita delle comunità gitane.
Il primo contatto con gli zingari Koudelka l’aveva avuto da bambino nel suo villaggio natale, Valchov, in Moravia. Un abitante del luogo, visibilmente agitato, aveva percorso in lungo e in largo le strade della cittadina battendo il tamburo per richiamare l’attenzione di tutti e avvertendo la popolazione della necessità di rinchiudersi in casa, di proteggere i bambini e di mettere al riparo le galline in quanto, di lì a poco, sarebbero arrivati gli zingari. La realtà con la quale Josef venne in contatto risultò, però, essere di gran lunga differente da quella rappresentazione diffusa nell’immaginario comune: non vi furono furti nei pollai o nelle case, nessun carro stracolmo di persone e oggetti invase la strada principale. Un gruppo di musicisti gitani, accompagnati dalle rispettive famiglie, si fermò in prossimità del villaggio dando vita a un intimo festival musicale. Fu in quel momento che Koudelka, grande amante della cornamusa e del violino, rimasto affascinato dalla musica e dalla cultura gitane, decise di approfondire la conoscenza di quel popolo, intraprendendo un viaggio antropologico, prima ancora che fotografico, che, tra il 1962 e il 1971, lo porterà a viaggiare tra le comunità zingare di Boemia, Moravia, Slovacchia, Romania e Ungheria.
Una prima, piccola, mostra di questo lavoro venne allestita nel foyer del teatro di Valchov nel 1967. Si trattò di un evento straordinario per l’epoca, in quanto il regime sovietico impediva la trattazione del tema degli zingari in qualsivoglia forma. La soppressione nel sangue della Primavera di Praga e la conseguente privazione di quelle poche libertà riconquistate grazie alla breve esperienza di governo di Dubcek, però, impedì a Koudelka di proseguire il suo lavoro di fotografo nella terra d’origine. Quando nel 1969 la Robert Capa Gold Medal (un premio assegnato annualmente dall’Overseas Press Club of America al “miglior reportage fotografico dall’estero, per realizzare il quale siano stati necessari eccezionali doti di coraggio e intraprendenza”) fu attribuita al “anonymous prague photographer”, Koudelka venne fermato per strada da un amico d’infanzia che gli chiese se fosse lui l’anonimo praghese ad aver ottenuto l’importante riconoscimento del quale aveva sentito parlare a Voice of America, una stazione radio dell’epoca. In quel momento capì che, se fosse rimasto, il regime comunista non avrebbe impiegato molto tempo a collegare la sua persona a quelle fotografie che avevano scardinato l’edulcorata versione fornita dalla politica con riferimento all’invasione della Cecoslovacchia. La fuga dal paese avvenne nel 1970: sfruttando una borsa di studio ottenuta per proseguire la documentazione fotografica delle comunità gitane in Camargue, Josef lasciò Praga, dove farà ritorno dopo oltre venti anni di esilio.
Le fotografie relative agli zingari scattate da Koudelka tra il ’62 e il ’71 troveranno una degna collocazione solo nel 2012 a Milano presso la Fondazione Forma, dove, dopo oltre 40 anni, venne allestita una mostra, curata personalmente dallo stesso Koudelka, nella quale furono esposti 109 scatti, oggi visibili nel libro Zingari, edito da Contrasto. Osservando queste fotografie, realizzate prevalentemente mediante l’impiego di un grandangolo, non si può non cogliere la profondità dell’immersione di Koudelka nella vita di tutti i giorni delle comunità gitane. Ci sono le spoglie stanze delle piccole case che li ospitavano, i giovani musicisti impegnati nel suono del violino e del violoncello in mezzo a una folta folla di sorridenti ascoltatori, lo stretto rapporto creatosi tra un uomo e il suo cavallo, i volti di due novelli sposi tra le strade della Boemia, la disperazione di un uomo con le manette ai polsi trascinato via dalla propria famiglia dopo essere stato arrestato. Una tra tutte, però, manifesta la sensibilità di Koudelka. Si tratta della Veglia Funebre. All’interno di una cupa stanza, una moltitudine di uomini, donne e bambini circonda il corpo di una donna adagiata nella bara. È una scena nella quale avviene un vero e proprio incontro tra generazioni differenti, incontro questo che si manifesta con straripante forza nel neonato sorretto dalla madre a pochi centimetri del volto della donna defunta. Non è un caso se proprio questa fotografia fu in grado di attirare l’attenzione di Henri Cartier-Bresson, risultando determinante per l’ammissione di Koudelka nell’agenzia Magnum. Nel 1969 Koudelka era stato a Londra all’inaugurazione di una mostra curata da Cornell Capa e, al termine di essa, non era stato ammesso in un lussuoso ristorante, dove avrebbe dovuto cenare insieme agli altri fotografi, in quanto sprovvisto di cravatta. Fu proprio Bresson ad alzarsi e a rivolgersi al cameriere dicendo: “Lui è vestito meglio di te che sembri un clown, ma se lui non entra allora io me ne vado e ce ne andiamo tutti”, dopodiché il folto gruppo si trasferì in una modesta trattoria greca. Un anno dopo, Koudelka fu invitato da Bresson presso la sua casa di Parigi e fu proprio in quell’occasione che “l’occhio del secolo” chiese a Josef di regalargli la fotografia della veglia funebre affinché potesse appenderla in casa propria.

 

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