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venerdì, 26 Aprile, 2024

"WHY DON'T WE CALL IT PUNK?"

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di Martina Biassoni

La voglia di riproporre il vecchio, ciò che si pensava dimenticato e lasciato nel passato è una moda ricorrente sempre più spesso ed in sempre più ambiti.
Guardandola da punto di vista della moda, è un bene, rappresenta un taglio molto grosso agli sprechi, un modo per inquinare meno e per dare nuova vita ad un capo che avrebbe solo bisogno di amore per sfoggiare tutta la sua gloria e la sua bellezza.

Ma sarà solo una voglia di riproporre mode del passato, quella di portare sulla cresta dell’onda di nuovo le padded shoulders, che fanno tanto eighties, e la mini scozzese con catena che riporta direttamente alla Brixton dei Clash, o ad MTV Unplugged ad ascoltare Kurt cantare All Apologies chiunque la indossi, oppure è una mera mancanza? Mancanza di idee, di novitá, di freschezza ed innovazione, mancanza di memoria, anche.

È un parallelismo azzardato, certo, ma la storia che si ripete, le stesse scelte che, alla cieca, vengono prese sperando in esiti diversi, gli stessi errori quindi che si ripetono. Le stesse situazioni che perpetuamente riportano a risultati già visti, nonostante i tempi che cambiano e le persone che – inevitabilmente – evolvono, cambiano portandosi sempre dentro la forza del cambiamento, sì, ma anche quella delle radici, della tradizione e del collegamento al passato.
Un passato cui è impossibile sfuggire, un filo grosso che lega le scelte e le mode di adesso al passato, il clima sociale odierno a quello che si respirava negli anni delle grandi rivoluzioni dello scorso secolo, quelli del Rock ‘n’ Roll dei Beatles e degli Stones prima, quello dei Nirvana e dei Pearl Jam dopo. Perchè anche se non lo si vuole ammettere è in atto un cambiamento di stili di vita, di modi di affrontare la quotidianità molto simile a quello del boom economico degli anni 50/60, con la lavatrice e il frigorifero ad emblema, e quello degli anni 80/90 con il più facile e libero accesso alle “primordiali forme di tecnologia”; ed il cambiamento spaventa, la novità porta con sé scoperte positive, ma anche tanto adattarsi e tanta fiducia nel cambiamento quanto è grande il fastidio che si prova nel dover cambiare e nell’essere “scomodi” in una situazione a cui ancora non si è abituati. Allora ci rifugiamo nelle gonne tartan e nel “punk”, o come va di moda chiamarlo adesso “indie”.

Ma il senso di ristrettezza nella quotidianità, la voglia di evadere che tanto sembrando indie – e quindi da “outsider” – ormai sono solo l’ennesima riprova che siamo tutti omologati al cambiamento, che tutti cerchiamo di copiare la modella in voga di turno, che siamo attenti a ogni costante “bombardamento di novità” che vediamo sui social, in tv, per le strade e ci copiamo l’un l’altro, senza fantasia, senza novità, alla sola ricerca di qualcuno che riporti ordine al caos. Questo caos viene semi-regolato dalla legge che tutto ciò che è strano, ciò che non è uguale al resto, è giusto. Allora tutti cerchiamo di distinguerci dalla massa senza notare, presi come siamo dal nostro “#gramgame”, che siamo solo delle pecore che si copiano l’un l’altra, che perdono personalità e carattere di fronte al cambiamento. Che non reagiscono più reattivamente davanti alla forza invasiva del futuro, ma lo aspettano passivi, sognando epoche che non ci sono più, rintanandosi nel pensiero che “si stava meglio quando si stava peggio”, quando non ci si sentiva in dovere d’essere costantemente svegli e recettivi, d’essere sempre al passo con l’ultima moda. Quando non si condividevano i segreti più profondi con milioni di sconosciuti sui social network, ma con le persone che si avevano a cuore.

Allora forse sì, il “vintage” è bello, aiuta a ricordare chi siamo. Ma il futuro, questo grande mondo ce lo sta spingendo a forza addosso, cercando di svegliarci dal sonno sognante di passato in cui siamo assopiti.

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