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martedì, 23 Aprile, 2024

L’UNIVERSITÀ AD UN ANNO DALLA DAD: INVERVISTA ALLA PROF. SSA LOREDANA GARLATI

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di Gabriele Rizza

La pandemia continua a stravolgere i luoghi della formazione: scuole e Università, chiuse e poi riaperte e poi ancora chiuse. La DaD continua il suo corso e, a distanza di un anno, da strumento quasi sconosciuto è diventata la quotidianità. Di ciò che toglie e di ciò che invece ha da offrire nel futuro la Dad, ne abbiamo parlato con la Professoressa Loredana Garlati, Direttore del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano – Bicocca e docente di Storia del Diritto Medievale e Moderno.

Si è parlato molto poco della socialità negata (per necessità sanitaria) agli studenti universitari. Qual è il valore della socialità nelle aule universitarie?

«L’Università è indubbiamente socialità, non è soltanto informazione didattica, ma è anche formazione della personalità: gli studenti entrano adolescenti ed escono adulti. Averli privati di questo momento di convivenza, di incontro tra di loro e con i docenti, non solo ha peggiorato la loro formazione, ma soprattutto li ha gettati nello sconforto, nella depressione e nel vivere soltanto sui social, infatti, davanti ad un pc, si perde quell’elemento importante che è la relazione umana. Anche gli studenti universitari sono ragazzi fragili, vivono un momento di transizione e vedono molte difficoltà nel futuro, nell’Università crescono sia culturalmente che nell’espressione della loro personalità. I nostri servizi di orientamento, che hanno anche degli sportelli dedicati agli studenti che manifestano bisogni e necessità, hanno avuto un’affluenza notevole in questo periodo. I ragazzi spesso si trovano a vivere in una sorta di bolla per non poter vedere i propri amici o propri genitori se si è fuori sede, a loro viene chiesto di resistere e reagire. Non è facile, anche perché vivono una stagione che dovrebbe essere indimenticabile e in questo momento non è così».

Anche secondo la sua esperienza personale, ci sono degli elementi positivi e degli spunti di riflessione che ha lasciato la DaD ad un anno distanza?

«Questo momento di pandemia ha costretto tutti noi a comprendere la nuova tecnologia, e questo indubbiamente è un vantaggio. Ci siamo dovuti confrontare con nuovi strumenti e innovare la metodologia didattica e credo che sia un bagaglio che si potrà spendere anche quando finalmente si tornerà alla didattica in presenza, che per me ha un valore inestimabile. Certo, non è stato semplice: l’abbiamo affrontata con grande caparbietà, non facendo perdere un minuto ai nostri studenti, non solo durante le lezioni ma anche nelle lauree e in tutte quelle attività formative che riguardano gli studenti. La mia esperienza è che abbiamo abbattuto certe barriere formali: la DaD fa perdere molto, non vedo i loro visi, non riesco a cogliere nei loro occhi la perplessità o la scintilla d’entusiasmo, però ho notato che si può instaurare un rapporto più diretto. Ad esempio, si vergognano di meno nel fare domande, non le ritengono banalizzanti come può accadere in aula, ci sono le chat su cui scrivono e arrivano tante domande e mail. Non si tratta solo di chiedere spiegazioni, ma anche di cercare quel rapporto con il docente che va aldilà dell’aspetto professionale».

Non si torna mai del tutto indietro. In futuro la DaD potrà essere una risorsa? E in che modo?

«La didattica a distanza potrà essere a favore di alcune categorie di studenti, come i lavoratori o chi ha disabilità. Può essere una risorsa, ad esempio può esserci la possibilità di un’integrazione. Infatti, questa tecnologia ci ha messo a disposizione dei modi diversi per fare didattica, non è soltanto un campione di soggetti diversi che possiamo raggiungere, ma possiamo innovare le tecniche della didattica. Aver costretto noi docenti ad aggiornarci è un’esperienza che non deve andare sprecata».

In che modo la ricerca scientifica ha avuto delle difficoltà durante l’ultimo anno?

«La difficoltà della ricerca ha riguardato tanto i giovani studiosi, come i dottorandi e chi doveva procedere alla stesura della tesi, quanto noi docenti. Abbiamo avuto difficoltà per la chiusura delle biblioteche, impedendoci di trovare l’elemento primo, ossia il supporto bibliografico per svolgere la ricerca. Se invece allarghiamo l’orizzonte, la ricerca ha bisogno di essere supportata con finanziamenti, la pandemia ce lo ha insegnato. Questo paese deve credere nella ricerca, perché significa credere nel futuro, e crederci significa investire di più e non fare solo proclami. I nostri ricercatori sono quelli che in quest’ultimo anno hanno vinto più progetti di finanziamenti europei, bisogna credere nelle nostre capacità».

 

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