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La pop art italiana di Mario Schifano

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Che Schifano sia uno dei protagonisti del ‘900 italiano, una delle personalità più graffianti dell’arte contemporanea, lo dicono in tanti, ma occorre che lo dicano tutti, attuando un paradosso umanistico che è la radice della verità inventiva del suo lavoro pittorico che ha preso e prende, quello che tutti noi pensiamo, ma non sappiamo esprimere. Guardando il suo lavoro si avverte la sua presenza nell’impalpabile fantasma che accompagna le sue opere e le rende visibili, richiamando alla mente i tanti aneddoti della sua biografia artistica, tutta giocata su grandi slanci e distaccate ironie, argomentata con opere che riflettono originali consapevolezze stilistiche e le sue lunghe degenze negli stati dell’incoscienza e dell’allucinazione. Definire Mario Schifano, inquadrarlo con precisione storica non è ancora possibile, perché è ancora troppo vivo in mezzo a noi, con la sua voce sfarzosa e il suo sguardo tagliente, il suo atteggiamento canzonatorio. Tutta una grande maschera che non ha mai dismesso, per custodire una inquieta erraticità, l’estendersi di un delirio di appartenenza, ma anche di teatrante stupore per il colpo di scena, che in ogni quadro è dato dall’emozionalità del momento, dalla gioia o dalla disposizione del dipingere. Rarità, interpretazioni aristocratiche e sottili, anche quando i rimandi possono fare pensare ad una grossolanità romanesca. Ma non dobbiamo dimenticare che c’è fuori, tra mercanti e mercanti, uno Schifano fatto in fretta e furia che pone problemi di omologazione che non possono essere liquidati con una farisaica formula di “mancanza di caratteristiche per l’archiviazione” come spesso vengono liquidate troppe opere. Schifano con gli aggiramenti delle sue continue dislocazioni che fanno dei monocromi degli anni Sessanta una specie di piattaforma di azzeramento di tutte le precedenti suggestioni figurative e naturalistiche, proiettando in un universo carico di attrattive e di seduzioni, che viene dal boom economico, italiano, in cui finalmente l’avere non è più un desiderio consentito a pochi. Il riferimento alla modernità eccellente, irrefrenabile è confacente alla sua psicologia di seduttore e dissipatore, quello dei futuristi, ma più dei personaggi che delle opere, dell’essere signori del doppiopetto come lui non era mai in apparenza e signori di una rivoluzione culturale a tutto tondo, più del cubismo e del dadaismo, di cui si pone anche cronologicamente in mezzo, tra la conservazione mentita di un certo brivido della tradizione e la ricerca spasmodica della società dello spettacolo. Siamo, così, nel pieno della sua luminosa avventura che lo conduce a ritrovare il paesaggio, che chiamerà anemico, anche se sfavillante di colore, a raccontare delle storie, ad incontrare visioni dei pittori impressionisti, che diventano metafore del suo disincantato incantato, tipico di coloro che vogliono nascondere il loro animo sensibile, per paura di essere considerati inabili alla scorza dura che vogliono sempre mostrare. Lo si è definito variamente da anti Guttuso a padre indiretto della transavanguardia e protettore di tutti i metropolisti e gli sperimentatori virtualisti, ma tutto questo, che è in larga misura vero, è un effetto indesiderato dallo stesso autore che non era felice di nessun accomunamento, compreso il Franco Angeli e il Tano Festa con cui diede vita al felice accostamento di Piazza del Popolo. Le grandi misure dei quadri esposti, non sono solo estensivamente, ma l’estrinsecazione di una sua ponderosità, nell’affrontare le grandi stesure di un involontario, ma forse non tanto, michelangiolismo, capaci di un grande effetto di trascinamento, emotivo anche; perché non bisogna pensare di visitare questa mostra impunemente; perché c’è una chimica della visibilità schifanesca che ti entra dentro, non già perché lui sia il più grande artista del mondo, ma per il suo partire sempre dal senso comune per poi elevarlo a misure ineguali, ma sempre alte, imprendibili dai mediocri e dagli ordinari. Sa scolpire il paesaggio e dare ali al passo di danza, descrivendo il movimento della sua scansione invisibile, a cui riesce a dare corpo e vivacità, disposizione mentale, che lo rende adatto, naturalmente, all’incontro con la televisione, con le immagini prese in movimento, captate nel loro essere dall’altra parte e trasportate di qua, fatte nascere sotto la sferza del pennello, a volte conservandone tutto il guizzo di velocità, altre volte bloccate come icone profane della fissità.

Pasquale Lettieri