19.9 C
Milano
martedì, 16 Aprile, 2024

La grande balla della tecnocrazia

- Advertisement -spot_imgspot_img
Annunci sponsorizzatispot_imgspot_img

La nomina di Valeria Fedeli a ministro dell’istruzione ha generato una furiosa polemica sul fatto che, a quanto pare, la stessa non sia laureata. Al di là del fatto che sia o meno vero (pare sia fondamentalmente una bufala), questo fatto indica un dato culturale sempre più affermato in Italia: l’apprezzamento per la “tecnocrazia”. Secondo molti sarebbe scandaloso avere dei politici, parlamentari o ministri che siano, non laureati perché, per svolgere il loro compito, dovrebbero avere competenze e cultura non garantite da chi non ha una laurea. Un’idea, questa, che si basa su un fondamentale errore, ovvero l’idea che esistano scelte ideologicamente neutre e che, quindi, possano esistere governi “tecnici”.

Ogni scelta che un governo fa è, per forza, basata su una ideologia, su una visione del mondo ben precisa e non “oggettiva” e su valori e priorità etiche. Ho già scritto in passato sull’impossibilità di uno stato non-etico. Lo stesso ragionamento vale per lo stato “tecnico”. Se prendiamo per esempio il governo Monti, possiamo vedere come la tecnocrazia sia una bugia bella e buona. Quel governo fece scelte basate su un’idea di società e di economia di stampo neoliberista, dando la priorità al pagamento dei titoli di stato e dei vari debiti con le banche, garantendo i guadagni degli speculatori e dei finanzieri, e, al contempo, ritardando i pagamenti alle varie piccole e medie aziende che avevano effettuato lavori per lo stato. Diverse di queste aziende fallirono e dovettero chiudere per i debiti fatti per effettuare i lavori. Fallimenti che non sarebbero avvenuti se lo stato avesse pagato regolarmente. Se al governo non ci fosse stato un neoliberista, ma un marxista o un fautore della decrescita, le scelte sarebbero state ben diverse e quelle aziende non avrebbero chiuso. Stesso discorso si può fare sulla politica fatta dalla Fornero riguardo i diritti dei lavoratori. Se al posto di un “tecnico” di scuola neoliberista ci fosse stato, che so, un Maurizio Landini, la cui preparazione tecnica sul mondo del lavoro credo sia indubbia, le scelte sarebbero state ben diverse. Si sarebbero difesi i diritti e la dignità dei lavoratori invece che i privilegi dei ricchi. Sarebbe quindi il caso di smettere di parlare di “scelte tecniche” e di avere l’onestà di definirle per quello che sono: scelte ideologiche. Il fatto che oggi esista, di fatto, una sola ideologia dominante, quella capitalista, che è riuscita a imporsi spazzando via le altre, non significa che la sua visione del mondo sia meno soggettiva.

Il vizio di definire come “oggettive” e non “ideologiche” le scelte economiche del capitalismo è di vecchia data. Già Karl Marx denunciava nella sua opera “Miseria della filosofia” questo errore presente nelle opere di Ricardo. Al tempo le scelte capitaliste venivano definite “naturali”, in opposizione a quelle ideologiche dell’economia feudale. Oggi il termine “naturale” è stato sostituito dal termine “tecnico”, ma l’idea è sempre la stessa: far passare delle decisioni soggettive e particolari come le uniche possibili. Una balla colossale che nasconde solamente i beceri e squallidi interessi delle lobby finanziarie e capitaliste.

Qualunque ministro o parlamentare agisce dunque secondo una ideologia politica e una visione del mondo soggettiva. E qui casca anche la questione della “preparazione”. L’idea secondo cui il ministro debba essere laureato e preparato ha senso se si considera il ministro come un tecnico. Ma il ministro non sono non lo è, ma, dovendo fare scelte politiche, non deve nemmeno esserlo. Il compito del ministro è portare una visione del mondo che indichi la via da seguire. Il ministro deve avere chiaro il tipo di paese e di società che vuole costruire, possibilmente guardando ai prossimi venti, trenta o cinquant’anni e non solo alla prossima scadenza elettorale. Per realizzare tale progetto di società i ministri hanno poi a disposizione una squadra di tecnici che devono creare e studiare quegli strumenti necessari a realizzare il progetto. Immaginiamo, ad esempio, che si debba decidere come gestire la sanità. Il ministro dovrà decidere se rafforzare la sanità pubblica o se, invece, favorire i privati. Dovrà decidere se garantire a tutti una sanità gratuita o se puntare su un sistema “all’americana” dove la sanità è a pagamento. Una volta prese queste decisioni saranno i tecnici a metterle in pratica.

Il ministro, quindi, deve avere una cultura politica che nessuna laurea dà. Una cultura che viene dall’esperienza e dall’ideologia di riferimento. Inoltre, anche volendo, il ministro non potrebbe avere le competenze necessarie a gestire tutte le problematiche inerenti al suo ruolo. Tornando all’esempio del ministro della sanità, quale dovrebbe essere la sua laurea? Un laureato in scienze politiche sarebbe competente sul lato istituzionale della faccenda, un laureato in economia sarebbe bravo a gestire la cassa, un medico sarebbe competente sul tema della salute e della cura delle malattie. Ma nessuno garantisce che un medico sia anche un buon organizzatore o sappia come rendere migliore il sistema sanitario. Così come un laureato in economia non può sapere cosa sia meglio scegliere per i pazienti, quali servizi siano necessari e quali invece “sacrificabili”. Le competenze devono per forza essere di gruppo, il che elimina il tema del titolo di studio del ministro. Questi, infatti, è “solo” il coordinatore della squadra del ministero, colui che dà l’impronta politica.

Infine, va detto che la tecnocrazia non può che mantenere, nel migliore dei casi, il sistema così com’è, rivelandosi spesso la scusa per giustificare la mancanza di prospettiva e di capacità della politica. Il tecnico applica le regole esistenti, senza modificarle sostanzialmente. Non a caso i governi tecnici vengono istituiti quando servono misure impopolari per mantenere lo status quo. Misure che i “politici” non possono attuare senza rischiare di perdere consenso. E così si nominano dei tecnici, illudendo la gente che non ci sia altra possibilità e prendendo le distanze dalle decisioni “lacrime e sangue”. In un momento come questo, però, servono proprio i politici, servono i filosofi e i sognatori, perché, quando un sistema economico mostra i chiari segni del suo fallimento, è necessario avere il coraggio di superarlo e costruire un nuovo sistema. Servono cambiamenti veri, non riforme inutili che servono solo a rafforzare i privilegi e il potere dell’attuale classe al potere. E il cambiamento non può venire dai “tecnici”, educati a seguire le regole e il modo di pensare dominanti, ma deve venire da persone che, laureate o meno, abbiano una visione diversa e siano in grado di pensare in modo diverso dal pensiero al potere.

Concludendo, al nostro paese (e forse al mondo intero) serve un cambiamento profondo, culturale ed etico. Servono nuovi valori, nuovi modi di vedere il mondo, la società e l’umanità. Ma per farlo dobbiamo smettere di fidarci dei “tecnici” e cominciare a pretendere che si realizzi il sogno di un mondo migliore, giusto e improntato sui diritti e sulla dignità di tutti. Un sogno possibile, a condizione di superare l’attuale sistema economico e politico.

Enrico Proserpio

- Advertisement -spot_imgspot_img

Ultime notizie

- Advertisement -spot_img

Notizie correlate

- Advertisement -spot_img