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martedì, 6 Agosto, 2024

Intervista a Michela Mercuri: “Italia senza strategia in Libia e sotto ricatto della Turchia”

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di Gabriele Rizza

L’emergenza Covid- 19 ha frenato il commercio e gli spostamenti globali ma non ha fermato il corso della storia nei teatri di guerra. La Libia continua ad essere uno scenario di fuoco. Ne abbiamo parlato con Michela Mercuri, grande studiosa ed esperta dello scenario mediterraneo. Attualmente è docente del corso in Terrorismo e le sue mutazioni geopolitiche alla SIOI (Società italiana per le organizzazioni internazionali di Roma) e insegna Geopolitica del Medio Oriente all’Università Niccolò Cusano. Sulla Libia ha pubblicato il saggio Incognita Libia. Cronache di un paese sospeso.

Partiamo dall’inizio. L’intervento militare in Libia del 2011 è considerato da molti la più grande sconfitta italiana dalla seconda guerra mondiale. Cosa ha perso l’Italia?

«Nel 2011 l’Italia ha addirittura pagato per condurre una guerra contro i propri interessi. Ricordiamoci che l’intervento del 2011 contro Gheddafi fu voluto dalla NATO con la risoluzione 1973, dove emergeva tutto l’interventismo francese. Infatti, l’allora Presidente francese, Nicolas Sarkozy, due giorni dopo le rivolte di Bengasi del 19 febbraio 2011, chiese una riunione urgente al consiglio di sicurezza dell’ONU per adottare misure contro Gheddafi e a favore dei ribelli. Si è trattato di un intervento guidato da interessi nazionali francesi, declinabili in tanti modi: dal petrolio fino alla questione della valuta panafricana, perché Gheddafi voleva creare una valuta da utilizzare in 14 ex colonie francesi, causando un danno economico molto importante alla Francia che, da queste ex colonie, ricava materie prime a basso costo. In quel momento avevamo dei grandi interessi in Libia: alla fine nel 2008 era stato raggiunto un accordo molto importante, cioè il Trattato di amicizia e cooperazione italo – libico, che garantiva all’Italia tantissimi affari con la Libia. L’Italia avrebbe dovuto versare 5 miliardi di dollari alla Libia per costruire infrastrutture realizzate da imprese italiane. Questo accordo blindava inoltre i contratti con l’Eni e rafforzava la collaborazione in chiave migratoria. Avevamo tutto da perdere da quell’intervento, ci siamo trovati all’interno di una coalizione per spirito di fedeltà alla NATO. Ma oggi l’Eni è l’unica compagnia che riesce a estrarre stabilmente il petrolio dalla Libia. Almeno da un punto di vista economico le nostre posizioni non sono state del tutto intaccate. Ma solo dal punto di vista economico». 

La sensazione è che l’Italia non abbia mai avuto una strategia chiara in Libia. Siamo incapaci o è dovuto all’attivismo degli altri attori in gioco?

«Non c’è una visione di lungo periodo da parte dell’Italia nei confronti della questione libica. Non c’è la capacità di poter sfruttare gli strumenti che ha a disposizione per poter svolgere un ruolo di primo piano all’interno del paese. Abbiamo storicamente dei rapporti importantissimi con la Libia, maturati fin dagli anni ’70, quando Gheddafi da una parte espelleva gli italiani e dall’altra firmava i contratti con l’Eni. Tutt’oggi i libici ricordano i buoni rapporti con l’Italia, e questo è un grande valore. L’Eni è un altro grande valore aggiunto, continua a lavorare in Libia e a dialogare con gli attori locali che dovrebbero essere nostri interlocutori. Abbiamo inoltre un’Ambasciata a Tripoli, unico punto di contatto occidentale all’interno del paese. Abbiamo tanti strumenti, eppure ci siamo fatti coinvolgere dall’UE che è fatta di stati che perseguono gli interessi nazionali a discapito dello spirito unitario europeo. E molto spesso ci siamo trovati a seguire le linee di alcuni paesi – come la Francia ma non solo – che invece hanno perseguito il loro interesse nazionale. Il vero problema è quello di non aver avuto una strategia continuativa e ben chiara per la Libia».

In questi mesi di “serrata” cosa ha fatto l’Italia per la questione libica?

«L’Italia non ha fatto nulla per coltivare il dossier libico. Si è concentrata sulla politica interna. L’emergenza Covid- 19 è stata preponderante, ma questo non esclude che l’Italia possa continuare a tenere in piedi un’agenda di politica estera. Tardivamente, in questi giorni, il ministro degli esteri, Luigi Di Maio, ha ripreso in mano la questione libica portando avanti soprattutto il tema della missione Irini, missione navale che ha l’obiettivo di far rispettare l’embargo di armi in Libia nell’est del paese. Irini però presenta numerose criticità: le armi che giungono nel paese via mare arrivano prevalentemente dalla Turchia (verso l’alleato al- Sarraj) con la quale noi abbiamo dei rapporti molto ambigui, soprattutto dopo la liberazione di Silvia Romano che ha visto come protagoniste le intelligence turche. Questo potrebbe metterci in una posizione imbarazzante quando ci porremo alla guida della missione Irini. Inoltre, l’Italia si è sbilanciata molto in questa missione affermando di voler inviare a rotazione più di 500 uomini, ma questa missione rischia di essere un flop se non sarà appoggiata da tutti i paesi europei che, in questo momento, mi sembrano invece piuttosto reticenti».

Ha appena accennato alla liberazione di Silvia Romano. La Turchia, di fatto, ha un credito nei nostri confronti. Secondo lei potrà essere riscosso in Libia?

«Assolutamente sì, la Turchia è entrata a gamba tesa in Libia grazie anche all’assenteismo italiano, ed è entrata nel quadrante libico appoggiando le milizie dell’ovest, armandole, inviando miliziani e probabilmente anche jihadisti a combattere contro l’avanzata di Haftar, a sua volta sostenuto dagli Emirati Arabi Uniti. La guerra si gioca prevalentemente tra potenze esterne: da un lato la Turchia e dell’altra gli Emirati Arabi Uniti. Difficilmente queste due potenze decideranno di abbandonare i propri alleati. Nella liberazione di Silvia Romano sono stati nevralgici i servizi segreti turchi ma anche il Qatar, due attori che sostengono al – Sarraj. La Turchia potrebbe voler riscuotere il suo credito proprio nel teatro libico, dove ci sono in ballo interessi importanti. Da un punto di vista economico la Turchia ha firmato con al – Sarraj un accordo per una zona economica esclusiva nel mediterraneo orientale, dove sono esclusi i lotti dell’Eni, che avrà delle difficoltà ad attuare delle prospezioni in questa zona, quindi questo potrebbe essere un primo strumento di ricatto da un punto di vista economico. Ma c’è anche un’altra questione: la Turchia si è completamente sostituita a al – Sarraj nell’ovest libico, che era di nostra competenza nella gestione della questione migranti. Invece ora potrebbe ricattarci anche da questo punto di vista, infatti quasi tutti i migranti partono dall’ovest».

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