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venerdì, 29 Marzo, 2024

#conosciiltuosguardo. LA VOCAZIONE: dono e mistero, gioia e croce

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di Angelo Portale

 

Questa settimana la prima lettura della domenica, ci racconta la vocazione del profeta Samuele (1 Sam 3,3-10.19).

Ho fatto qualche riflessione personale. In questo articolo uso “vocazione” sia per la chiamata che tutti abbiamo ad amare, sia per ogni scelta concreta, affettiva e professionale, che ognuno vive: l’essere genitore, medico, religioso, studente, avvocato, figlio, cameriere, cuoco, ecc. Ho fatto questa scelta perché tutto è strumento per potersi donare, quindi tutto può essere vocazione.

La vocazione è misteriosamente fonte di gioia e di croce. Non tanto perché in sé è essa stessa croce, ma perché tra la chiamata radicale all’amore che essa suscita in noi e la nostra risposta alle esigenze di tale chiamata, facciamo sia esperienza dello scarto che esiste tra ciò che sentiamo dover\voler realizzare e ciò che riusciamo poi a realizzare concretamente; sia esperienza delle nostre resistenze (paure, proiezioni, egoismo, ecc.) a lasciarci andare fino in fondo. Il problema siamo noi. Siamo noi la nostra croce più pesante quando non ci accettiamo.

Cosa fare? A Paolo, scoraggiato per i suoi limiti, Gesù risponde: «Ti basti la mia grazia». Cosa significa? Ridimensionare l’eccessiva importanza che diamo a noi stessi, al nostro ruolo all’interno della vocazione che viviamo e, perché no, agli stessi nostri peccati. In questi momenti, l’unica cosa che possiamo fare, ce la suggerisce Pietro: «Signore, tu sai tutto. Tu sai che io ti voglio bene».

Dio non giudica mai quindi i giudizi verso noi stessi, che sentiamo nella testa, non vengono mai da lui.

Non dobbiamo assolutizzare né i nostri pregi, né i nostri difetti, né la vocazione stessa. Nel primo caso cadremmo in una sorta di idolatria di noi, narcisistica. Nel secondo caso cadremmo nello scoraggiamento e perderemmo le forze necessarie per fare il bene. Nel terzo caso ci identificheremmo troppo nella vocazione che, per quanto possa essere importante, rimane sempre una modalità, una mera modalità, di realizzare la prima e vera vocazione che è amare, che è donarsi. In un certo senso è come identificarsi con un ruolo, un compito, un ufficio. Si perde di conseguenza il discernimento, la capacità di ascolto dell’altro e di noi stessi, diventeremmo rigidi, non metteremmo più al primo posto la carità ma il nostro ruolo, il nostro io. Noi non siamo assoluti! Non è assoluto quello che pensiamo! Dio solo è assoluto!

Facciamo come Samuele. Non stiamo troppo ad ascoltare i nostri giudizi. Mettiamoci una mano sulla bocca e rispondiamo come lui: «Parla Signore, perché il tuo servo ti ascolta». Poi, sorridiamo con affetto a noi stessi e a Lui e, se riusciamo, traiamo insegnamento dagli sbagli per amare sempre di più e sempre meglio.

[continua]

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