di Stefano Sannino
Una delle maggiori sfide imposte dal covid è senza dubbio il profondo cambiamento nel modo di fare istruzione. Dall’inizio della pandemia ad oggi, numerosi sono stati gli interventi nelle scuole e nelle Università, per cercare di implementare l’utilizzo di quelle piattaforme digitali che, almeno fino al 2019, era stato a dir poco lacunoso.
L’avvento dell’istruzione digitalizzata, mediante l’impiego di piattaforme come Microsoft Teams o Zoom, ha prodotto una serie di conseguenze che a lungo sono state dibattute da pedagoghi, psicologici e politici. Dalla profonda mancanza di una sfera sociale, alla diminuzione della qualità dell’istruzione causata da un più facile accesso alle risposte di test e verifiche, l’istruzione digitale pare aver creato in Italia più danni di qualsiasi altro cambiamento sociale.
Eppure, guardando al resto del mondo ci si rende conto che il ricorso all’istruzione digitale non solo dovrebbe essere una cosa normale, ma già ampiamente comprovata da tempo. College e Università di tutto il mondo fanno largo uso di piattaforme come Teams e Zoom per ovviare alla mancanza di spazio nelle aule o per permettere, più banalmente, un più facile accesso all’istruzione superiore.
Con questo non voglio certo dire che l’istruzione digitale dovrebbe sostituire completamente l’istruzione tradizionale, ma che la tecnologia sia invece uno strumento imprescindibile del XXI secolo in materia di insegnamento.
Dopotutto, senza andare a guardare paesi stranieri, anche l’Italia ha una sua storia nell’impiego dei nuovi media nel campo dell’istruzione: è il caso del famosissimo programma “Non è mai troppo tardi”, mandato in onda sulle televisioni italiane a partire dal 1960 fino al 1968 e che ha permesso il recupero di gran parte della fascia adulta di popolazione che all’epoca era completamente analfabeta. L’istruzione in Italia è quindi iniziata proprio com l’utilizzo della televisione che, all’epoca, era il mass media più innovativo e moderno. Viene quindi da chiedersi come mai non sia possibile oggi contemplare un’istruzione che faccia largo utilizzo dei nuovi media e dei nuovi strumenti tecnologici per raggiungere non solo quelle fasce di popolazione che altrimenti non avrebbero accesso all’istruzione, ma anche per permettere la sicurezza sanitaria in un’epoca di pandemia.
Certamente, non tutto è oro ciò che luccica e così anche la digitalizzazione dell’istruzione porta delle conseguenze che si riflettono nelle differenze di classe: come molti sociologi hanno fatto notare, le fasce più povere della popolazione italiana, che non hanno accesso a internet o ad un computer, si troverebbero escluse dai processi scolastici nella misura in cui questi siano solamente digitali.
Posto quindi che l’impiego dei nuovi media nei processi di istruzione debba essere proporzionato e ben calibrato, non si può continuare però a condannarlo aprioristicamente. La soluzione al problema della disparità sociale potrebbe essere per esempio, come per altro avviene regolarmente all’estero, la fornitura di pc o tablet da parte delle scuole e delle università, liberando così le famiglie da questa incombenza economica.
Insomma, se guardando al dibattito contemporaneo sull’istruzione si sente spesso condannare l’utilizzo della famosissima DAD, non si deve però dimenticare che gran parte della popolazione italiana negli anni ’60 e gran parte della popolazione mondiale contemporanea è stata istruita proprio grazie alla didattica a distanza e, conseguentemente all’impiego dei mass-media che, qualora impiegati correttamente, si sono sempre rivelati essere un aiuto prezioso per gli insegnanti e le scuole.