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giovedì, 1 Giugno, 2023

25 APRILE, NE' VINCITORI NE' VINTI. Ciò che rimane dopo 69 anni è solo vuota e anacronistica ideologia

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Chi non ha vissuto la tragedia della guerra, le speranze e le tensioni del dopoguerra, chi non ha subito il peso del terrore degli anni ’70 e dello stragismo dei seguenti, fa fatica a comprendere come mai dopo 69 anni dalla fine della seconda guerra mondiale celebriamo ancora la festa della liberazione. Parlo in prima in persona, e la questione che si pone è innanzitutto anagrafica, oltre che storica e politica.

Io non ho vissuto quegli anni, se non nei racconti dei parenti più prossimi. Però ho studiato la storia, e ancora mi ricordo quando in quinta liceo mi imbattei nelle riflessioni di alcuni storici che giudicai molto interessanti. Proponevano un cambio di prospettiva nel considerare la seconda guerra mondiale e il movimento di resistenza che la concluse, non più come guerra di liberazione, ma come guerra civile. I due fronti che si combatterono più duramente, anche negli anni seguenti, furono infatti due schieramenti costituiti entrambi da Italiani, fatto che esclude semanticamente l’uso del termine “liberazione” associato alla guerra di resistenza. 

Nonostante ciò, nonostante una storiografia ormai lucida, libera dal marxismo che la condizionò per molti anni in passato, dopo 69 anni ancora un’associazione nazionale di partigiani combattenti organizza in tutta Italia manifestazioni a celebrazione della liberazione nazionale. La celebrazione di una vittoria su noi stessi credo che si possa annoverare tra le eccellenze del made in Italy. Potrei pensare che sia assurdo, ma i lettori non esiterebbero a definirmi ingenuo.

Ingenuo, perchè ciò che si celebra veramente ogni anno il 25 aprile è l’affermazione di un’ideologia politica precisa, negli anni passati generalmente comunista, ora più complicata e articolata. Un sistema ideologico che negli ultimi anni si configura come “antifascismo”, un termine tanto generico quanto ampio (chi non è antifascista?), che racchiude in sè gruppi politici di estrema sinistra, spesso anche violenti. Ecco che allora il 25 aprile diventa occasione di tirare fuori la bandiera rossa e sventolarla nelle piazze, di insegnare “Bella ciao” ai propri figli, di fischiare contro il politico di turno, diversamente antifascista. Ciò che dovrebbe essere il ricordo del superamento di un’ideologia dannosa e liberticida, è solo l’occasione per l’affermazione di un’altra ideologia, che sempre di più assume contorni violenti ed estremisti.

La dimostrazione è l’escalation di atti di matrice estremista a cui in questi giorni abbiamo assistito a Milano. Prima il vetro della scritta in ricordo di Sergio Ramelli infranto, poi i volantini inneggianti allo scempio di Benito Mussolini a piazzale Loreto distribuiti a Quarto Oggiaro, e infine il rifiuto delle autorità milanesi di presenziare alla cerimonia del 29 aprile in ricordo di Sergio Ramelli ed Enrico Pedenovi, militanti di destra uccisi a sprangate nei tempi più bui della nostra Repubblica. Un clima quindi particolarmente teso, verso una giornata che rischia di celebrare la divisione degli Italiani piuttosto che la loro unione per riconquistare la propria libertà.

L’obiettivo è mantenere viva un’ideologia ormai anacronistica, che trova tuttavia triste attualità negli atti delle frange più radicali della sinistra, e insieme perpetuare quei vantaggi politici ed elettorali che una folta schiera di politici, dagli enti locali al Parlamento, continuano ad ottenere celebrando (e finanziando) ogni anno l’ideologia della liberazione.

Gabriele Legramandi

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