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giovedì, 25 Aprile, 2024

Ilva, Fiat e Telecom: storie diverse, stesso fallimento

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di Gabriele Rizza

Euro e globalizzazione, corruzione e debito, le dimensioni ridotte delle nostre imprese, sono le cause della crisi dell’industria italiana che più sentiamo dire nei talk show dai politici di destra e sinistra, dagli economisti e dai giornalisti. Chiariamo che nessuna di queste cause è falsa e nessuna è del tutto vera se presa singolarmente. Chiariamo anche che, in questo caso, per industria italiana s’intendono le grandi aziende operanti in settori strategici nonché storicamente chiave per l’economia italiana. Perché il “boom economico” non è stato trainato dal made in Italy fatto di vestiti, mobili, agricoltura e design, ma dalla siderurgia, dalla scoperta degli idrocarburi in Pianura Padana che Enrico Mattei seppe genialmente e cinicamente sfruttare, dalle auto, dalla meccanica, dalla chimica. Il made in Italy ha avuto successo dopo, tra i ’70 e gli ’80, per ragioni come la flessibilità sindacale, il facile adattamento al mercato e le forniture alle grandi imprese e poi sì, le idee e la creatività, pregi ancora unici al mondo.


Dunque, perché la grande industria è entrata in crisi? O peggio, perché è in fase di smantellamento? Rispondiamo con tre esempi, tre storie di fallimenti dovute a cause diverse.

Ilva– L’industria di Taranto produce acciaio, prodotto fondamentale per qualsiasi paese forte nel manifatturiero come l’Italia, e produrlo in casa riduce costi e tempi di attesa. La sua crisi si era aperta già negli anni Novanta a causa di una cattiva gestione statale prima e del Gruppo Riva poi, che non hanno saputo far fronte in tempo alla questione ambientale. Negli ultimi due anni c’era stata una ripresa della produzione, poi i dazi di Trump sull’importazione dell’acciaio, rivolto soprattutto a quello asiatico venduto a basso costo, hanno spinto gli asiatici a rivolgersi principalmente ai paesi dell’UE, mercato più liberista del mondo, creando difficoltà anche a Germania e Polonia. Aggiungiamoci poi l’aumento del costo delle materie prime e la contrazione generale del mercato, e capiamo perché Arcelor Mittal sta riducendo la produzione o, come in Polonia, dismettendo siti produttivi. Se al momento l’Ilva fosse potenzialmente più remunerativa per Arcelor Mittal, sicuramente il colosso indiano investirebbe anche nel risanamento ambientale, fermo restando che il Governo italiano ha pienamente ragione nella diatriba. Cattiva gestione prima e il libero mercato spietato della globalizzazione adesso, accompagnato dall’avversione del liberismo UE verso qualsiasi intervento diretto dello Stato nell’industria, hanno portato a mettere in ginocchio questa grande industria.

Fiat– Il grande fallimento del capitalismo familiare italiano. La crisi della gloriosa casa automobilistica inizia nel 1988: il gruppo guidato dall’ingegnere Vittorio Ghidella, padre della Uno e della Delta, porta la Fiat a superare Volkswagen e a diventare il primo produttore di auto in Europa, quinto al mondo. Ghidella preannuncia agli Agnelli tempi duri per il settore auto a livello mondiale e consiglia d’investire gli utili in ricerca e sviluppo, ma la famiglia preferisce sostituire Ghidella con Cesare Romiti che invece spinge per diversificare gli investimenti per aumentare i profitti. Il gruppo Fiat negli anni ’90 investirà, per poi vendere, nelle assicurazioni, nell’editoria e nelle telecomunicazioni, portando al collasso il settore auto, proponendo modelli di qualità scadente e restando indietro tecnologicamente. Non è solo il caso degli Agnelli, tante famiglie hanno preferito la finanza al prodotto, il guadagno immediato al progetto. Chi invece è rimasto fedele al prodotto, come Ferrero e Barilla, sono rimasti in piedi e cresciuti.

Telecom– Quando privatizzare non fa rima con migliorare. Siamo negli anni ’90, l’Italia deve entrare nell’euro. Il problema sta nel debito pubblico troppo alto. Così, il governo guidato da Romano Prodi, in accordo con la Commissione europea, decide di ridurre il debito vendendo i gioielli di famiglia. Telecom nel 1996 era un’azienda con 120.000 dipendenti, proprietaria di reti e fornitrice di servizi, molto forte anche all’estero, ad esempio in Sud-america e prima al mondo a sperimentare la fibra ottica. La privatizzazione avvenne in fretta, senza scorporare rete e servizi, senza riuscire ad avere un minimo ruolo di governance, senza puntare sull’azionariato diffuso. Si risolse tutto con l’acquisto di Telecom da parte della Olivetti di Roberto Colannino che, per compier questa operazione, indebitò l’Olivetti trasferendo poi questi debiti su Telecom stessa. Ora la gloria di Telecom è un lontano ricordo, passato in mani spagnole, francesi e ora americane. In questo caso c’è tutta l’incompetenza a la mancanza di visione strategica da parte dello Stato, il più grande limite della classe dirigente italiana.

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